Riti
di passaggio
Ta-Na-E-Ka
è
l’espressione che gli indiani Kansa o Kanza o Kaw, usano per
indicare il rito di passaggio che tutti gli adolescenti, maschi e
femmine, devono affrontare a undici anni per dimostrare di essere in
grado di sopravvivere da soli nella natura selvaggia.
Ma
nel 1947, anno in cui la storia si svolge, non è che un lontano
ricordo, eccetto per il patriarca della famiglia della giovane
protagonista, Mary, che obbliga lei e suo cugino Roger a sottoporsi
al rituale iniziatico. I due sono terrorizzati e, soprattutto, non ne
capiscono il senso. Così la giovane Mary decide di affrontare la
prova a modo suo, dimostrando di essere perfettamente in grado di
sopravvivere nella società moderna, senza disubbidire al nonno,
almeno
formalmente,
perché “ciò che non è proibito è lecito.”
di
MARY
WHITEBIRD
Man
mano che si avvicinava la data del mio compleanno, incominciai ad
avere terribili incubi. Stavo raggiungendo l’età in cui tutti gli
indiani Kaws1 devono prendere parte a Ta-Na-E-Ka. Molte
delle famiglie più giovani della riserva stavano iniziando ad
abbandonare le antiche usanze. Ma mio nonno, Amos Deer Leg, era
devoto alla tradizione: invece delle scarpe, calzava ancora mocassini
ricoperti di perline fatti a mano e teneva i suoi capelli grigio
acciaio legati in lunghe trecce. Conosceva l’inglese, ma lo parlava
solo con gli uomini bianchi. Con la sua famiglia usava un dialetto
sioux2. Il nonno era l’ultimo indiano vivente (morì nel
1953, ad 81 anni) che avesse combattuto contro la cavalleria degli
Stati Uniti. Non solo prese parte al combattimento, ma fu anche
ferito durane una scaramuccia a Rose Creek – un famoso scontro in
cui il celebre capo Kaw Flat Nose perse la vita.
All’epoca
mio nonno aveva solo undici anni. Undici era una parola magica fra i
Kaws. Era l’età, ci aveva detto centinaia di volte il nonno, “in
cui un ragazzo poteva provare a sé stesso di essere un guerriero e
una ragazza iniziava a muovere i suoi primi passi pr diventare
donna.” “Non voglio essere un guerriero,” mi confidò mio
cugino Roger Deer Leg. “Voglio diventare un contabile.” “Nessuna
delle altre tribù costringe le ragazze a passare attraverso i riti
di iniziazione,” mi lamentai con mia madre.
“Non
sarà male come pensi, Mary,” disse mia madre, ignorando le mie
proteste. “Una volta finito, di sicuro non lo dimenticherai più.
Ne sarai orgogliosa.” Mi lamentai perfino con la mia insegnante,
Mrs. Richardson, pensando che, essendo una donna bianca, sarebbe
stata dalla mia parte. Non fu così. “Tutti noi abbiamo i nostri
rituali, in un modo o nell’altro,” disse Mrs. Richardson.
“Prendila così: quante ragazze hanno l’opportunità di competere
alla pari con i ragazzi? Non disprezzare il tuo retaggio culturale.”
Retaggio culturale, per niente! Non avevo nessuna intenzione di
vivere in una riserva per il resto della mia vita. Ero una brava
studentessa, amavo la scuola.
Le
mie fantasie erano piene di cavalieri con l’armatura e dame dai
lunghi abiti salvate dai draghi. Non mi era venuto in mente nemmeno
una volta che essere indiani fosse una cosa eccitante. Ma avevo
sempre pensato che i Kaws fossero gli ideatori del movimento di
liberazione delle donne. Nessun altra tribù indiana – e ho
trascorso metà della mia vita facendo ricerche su questo argomento –
trattava le donne in maniera più ‘uguale’ dei Kaw. Diversamente
dalla maggior parte delle sottotribù della nazione Sioux, i Kaw
permettevano a uomini e donne di mangiare insieme. E centinaia di
anni prima che fossimo ‘acculturate,’ una donna Kaw aveva il
diritto di rifiutare un possibile marito anche se il padre aveva
organizzato l’unione.
Le
donne più sagge (generalmente la saggezza andava di pari passo con
l’età) spesso sedevano nei consigli tribali. Inoltre, la maggior
parte delle leggende Kaw giravano intorno alla “Good Woman,” una
specie di supersquaw, una Giovanna d’Arco degli altipiani. Good
Woman guidava i guerrieri Kaw di battaglia in battaglia, da cui
sembravano emergere sempre vittoriosi. E a ragazze e ragazzi veniva
richiesto di sottoporsi a Ta-Na-E-Ka. La cerimonia variava da tribù
a tribù, ma dal momento che la vita degli indiani degli altipiani
era dedita alla sopravvivenza, Ta-Na-E-Ka era una prova di
sopravvivenza. “La resilienza è la virtù più nobile degli
indiani,” ci spiegava nostro nonno. “Per sopravvivere, dobbiamo
resistere. Quando ero ragazzo, Ta-Na-E-Ka era più che un mero
simbolo, com’è oggi. Ci dipingevano di bianco con il succo di
un’erba sacra e venivamo mandati nudi nella natura selvaggia senza
nient’altro che un coltello.
Non
potevamo ritornare finché il bianco non spariva. Non andava via con
l’acqua. Ci volevano circa diciotto giorni e durante quel tempo
dovevamo restare vivi, procurarci cibo con le trappole, mangiare
insetti e radici e bacche, stare attenti ai nemici. E ne avevamo di
nemici – sia i soldati bianchi che i guerrieri Omaha, che provavano
sempre a catturare i ragazzi e la ragazze Kaw durante la loro prova
di sopravvivenza. Era un tempo esaltante.” “Che succedeva se non
ci riuscivate?” chiese Roger. Era nato solo tre giorni dopo di me
ed eravamo stai addestrati insieme in vista di Ta-Na-E-Ka. “Molti
non facevano ritorno,” disse il nonno. “Soltanto i più forti e i
più furbi. Alle madri non era permesso piangere quelli che non
ritornavano. Se un ragazzo o una ragazza Kaw non era in grado di
sopravvivere, allora non meritavano di essere pianti. Era il nostro
modo di vivere.”
“Che
banda di scemi,” sussurrò Roger. “Darei qualunque cosa per
tiramene fuori.” “Mi sembra che non abbiamo scelta,” risposi.
Roger mi strinse leggermente il braccio. “Beh, sono solo cinque
giorni.” Cinque giorni! Forse era meglio così che essere dipinti
di bianco e mandati allo sbaraglio per diciotto giorni. Ma non molto
meglio. Stavamo per essere mandati nei boschi a piedi scalzi e in
costume da bagno. Perfino i nostri parenti più tradizionalisti
puntarono i piedi quando il nonno suggerì che andassimo nudi. Per
cinque giorni dovevamo vivere all’aperto, tenerci al caldo come
meglio potevamo, procurandoci il cibo dove potevamo.
Era
il mese di maggio, ma ma nelle regioni più settentrionali del fiume
Missouri i giorni erano ancora freddi e le notti ancora gelide.
Il
nonno aveva l’incarico di addestrarci per un mese in vista di
Ta-Na-E-Ka. Un giorno catturò una cavalletta e ci fece vedere come
staccarle le ali e le zampe con un colpetto e come mandarla giù.
Mi sentii male e Roger diventò verde. “Meno male che siamo nel 1947,” dissi scherzosamente a Roger. “Tu diventerai di sicuro un temibile guerriero.” Roger si limitò a fare una smorfia. Io sapevo soltanto una cosa. Questa particolare ragazza Kaw non avrebbe mangiato cavallette, non importa quanta fame potesse avere. E poi mi venne un’idea. Perché non ci avevo pensato prima? Mi sarei risparmiata notti di brutti sogni piene di cavallette vischiose. Mi avviai risoluta verso la casa della mia insegnante. “Mrs. Richardson,” dissi, “mi presterebbe cinque dollari?” “Cinque dollari!” esclamò. “Per fare cosa?” “Ricorda la cerimonia di cui le ho parlato?” “Ta-Na-E-Ka. Certamente. I tuoi genitori mi hanno scritto chiedendomi di giustificarti in modo da potervi partecipare.” “Beh, ho bisogno di alcune cose per la cerimonia,” risposi con una mezza verità. “Non voglio chiedere i soldi ai miei genitori.”
Mi sentii male e Roger diventò verde. “Meno male che siamo nel 1947,” dissi scherzosamente a Roger. “Tu diventerai di sicuro un temibile guerriero.” Roger si limitò a fare una smorfia. Io sapevo soltanto una cosa. Questa particolare ragazza Kaw non avrebbe mangiato cavallette, non importa quanta fame potesse avere. E poi mi venne un’idea. Perché non ci avevo pensato prima? Mi sarei risparmiata notti di brutti sogni piene di cavallette vischiose. Mi avviai risoluta verso la casa della mia insegnante. “Mrs. Richardson,” dissi, “mi presterebbe cinque dollari?” “Cinque dollari!” esclamò. “Per fare cosa?” “Ricorda la cerimonia di cui le ho parlato?” “Ta-Na-E-Ka. Certamente. I tuoi genitori mi hanno scritto chiedendomi di giustificarti in modo da potervi partecipare.” “Beh, ho bisogno di alcune cose per la cerimonia,” risposi con una mezza verità. “Non voglio chiedere i soldi ai miei genitori.”
“Non
è un crimine chiedere soldi in prestito, Mary. Ma come puoi
restituirli?” “Le farò da baby-sitter per dieci volte.” “Mi
pare più che giusto,” disse, prendendo la sua borsa e allungandomi
una frusciante banconota da cinque dollari. Non avevo mai avuto tutto
quel denaro in una sola volta. “Sono felice di sapere che il denaro
sarà usato per una buona causa,” disse Mrs. Richardson. Pochi
giorni dopo, il rituale ebbe inizio con un lungo discorso di mio
nonno su come fossimo arrivati all’età decisiva, come noi adesso
dovessimo arrangiarci da soli e provare che potevamo sopravvivere
alla più tremenda delle ordalie. Tutti gli amici e i parenti che
erano convenuti a casa nostra per cena fecero battute sulle loro
personali esperienze di Ta-Na-E-Ka. Tutti ci consigliarono di
riempirci ora la pancia, perché per i prossimi cinque giorni avremmo
banchettato a forza di grilli. Né io né Roger avevamo molta fame.
“Probabilmente, quando sarò un contabile riderò di tutto questo,”
disse Roger, tremando. “Stai tremando?” chiesi. “Tu che pensi?”
“Sono felice di sapere che anche i ragazzi hanno la tremarella,”
dissi.
Il mattino dopo, alle sei, demmo un bacio ai nostri genitori e
ci incamminammo nei boschi. “Quale parte vuoi?” mi chiese Roger.
Secondo le regole, Roger ed io dovevamo scegliere il nostro
‘territorio’ in due diverse aree del bosco, e ci era proibito di
comunicare durante tutta la nostra ordalia. “Andrò verso il fiume,
se per te è okay,” dissi. “Va bene,” rispose Roger. “Che
differenza fa?” Per me faceva molta differenza. C’era un
porticciolo poche miglia a nord del fiume con delle barche
ormeggiate. Almeno, così speravo. Immaginavo che per dormire una
barca fosse un posto migliore che sotto uno strato di foglie. “Perché
continui a toccarti la testa?” chiese Roger. “Oh, niente. Solo un
po’ di nervoso,” risposi. In realtà, avevo paura di perdere la
banconota da cinque dollari, che avevo fissato tra i capelli con una
mollettina. Quando giungemmo ad una biforcazione del sentiero, Roger
mi strinse la mano.
“Buona
fortuna, Mary.” “Hl'ko-n'ta,” dissi. Era la parola Kaw per
‘coraggio.’
Il sole brillava e faceva caldo, ma i miei piedi nudi
incominciarono a farmi subito male. Scorsi uno di quei cespugli di
bacche di cui ci aveva parlato in nonno. “Siete fortunati,” ci
aveva detto. “Le bacche sono mature in primavera e sono deliziose
e nutrienti.” Erano arancioni e grosse e me ne misi una in bocca.
Argh! La sputai via. Era terribilmente amara, e probabilmente perfino
le cavallette avevano un sapore migliore, anche se non avevo alcuna
intenzione di scoprirlo. Un coniglio saltellò fuori da sotto
cespuglio di bacche. Annusò la bacca che avevo sputato e la mangiò.
Ne raccolse un’altra e mangiò anche quella. Gli piacevano. Mi
fissò arricciando il naso. Mi misi a guardare un picchio dalla testa
rossa che stava bucando il tronco di un olmo e vidi di sfuggita uno
zibetto sgusciare tra i rami di un albero.
All’improvviso capii che non avevo più paura. Ta-Na-E-Kapoteva essere molto più divertente di quanto avessi previsto. Mi alzai e mi diressi al porticciolo. “Nemmeno una barca,” dissi a me stessa con tono abbattuto. Ma il ristorante sulla spiaggia, ‘La locanda di Ernie,’ era aperto. Entrai, sentendomi stupida nel mio costume da bagno.
All’improvviso capii che non avevo più paura. Ta-Na-E-Kapoteva essere molto più divertente di quanto avessi previsto. Mi alzai e mi diressi al porticciolo. “Nemmeno una barca,” dissi a me stessa con tono abbattuto. Ma il ristorante sulla spiaggia, ‘La locanda di Ernie,’ era aperto. Entrai, sentendomi stupida nel mio costume da bagno.
L’uomo
dietro il bancone era alto e robusto. Indossava una felpa con su
scritto ‘Fort Sheridan3, 1944,’ e aveva una mano con
sole tre dita. Mi chiese cosa volessi. “Un hamburger e un
frullato,” dissi, tenendo in mano la banconota da cinque dollari
per fargli capire che avevo da pagare. “E’ una colazione bella
robusta, tesoro,” mormorò. “Questo è quello che mangio
abitualmente a colazione,” mentii. “Quarantacinque centesimi,”
disse, portandomi il cibo. (Nel 1947, gli hamburger costavano
venticinque centesimi e i frullati venti centesimi.) “Buonissimi,”
pensai. “Meglio delle cavallette – e il nonno non ha mai detto
che non potessi mangiare hmburger.” Mentre mangiavo, mi venne una
grande idea. Perché non dormire nel ristorante? Andai nel bagno
delle donne e mi assicurai che la finestra fosse solo accostata. Poi
ritornai all’esterno e mi misi a giocare lungo la riva del fiume,
osservando gli uccelli acquatici e cercando di riconoscerli uno ad
uno. Mi proposi di andare alla ricerca di una diga di castori
l’indomani. Il ristorante chiuse al tramonto e guardai l’uomo con
tre dita andarsene via in macchina. Allora mi arrampicai fino alla
finestra socchiusa. L’interno era illuminato da una luce notturna,
così non ne accesi altre. Ma c’era una radio sul bancone. La
sintonizzai su un programma musicale. Nel ristorante c’era un bel
calduccio e io avevo fame. Mi servii un bicchiere di latte e una
fetta di torta, con l’intenzione di tenere un elenco di ciò che
avevo mangiato così da poter lasciare il denaro. Decisi anche di
svegliarmi presto, sgusciare via attraverso la finestra e dirigermi
nei boschi prima del ritorno dell’uomo con tre dita. Spensi la
radio, mi avvolsi nel grembiule dell’uomo e, a dispetto del
pavimento duro, mi addormentai.
“Che diamine ci fai qui,
ragazzina?” Era la voce dell’uomo. Era mattina. Avevo dormito
troppo. Ero spaventata. “Tranquilla, ragazzina. Voglio solo sapere
che ci fai qui. Ti sei persa? Devi venire dalla riserva. I tuoi
devono essere spaventati a morte. Hanno un telefono?” “Sì, sì,”
risposi. “Ma non li chiami.” Stavo tremando. L’uomo, che mi
disse di chiamarsi Ernie, mi preparò una tazza di cioccolata calda
mentre gli spiegavo la faccenda di Ta-Na-E-Ka. “La cosa più
dannatamente strana che abbia mai sentito,” disse, quando ebbi
finito. “Ho vissuto accanto alla riserva per tutta la vita e questa
è la prima volta che sento parlare di Ta-Na, o come la chiami tu.”
Mi guardò: ero tutta pelle d’oca nel mio costume da bagno.
“Una
cosa veramente stupida da fare a un ragazzino,” mormorò. Questo
era proprio quello che avevo pensato per mesi, ma quando lo disse
Ernie, mi arrabbiai. “No, non è stupido. E’ una tradizione dei
Kaw. Lo abbiamo fatto per centinaia di anni. Mia madre, mio nonno e
ogni membro della mia famiglia è passato attraverso questa
cerimonia. E’ il motivo per cui i Kaw sono grandi guerrieri.”
“Ok, grande guerriera,” ridacchiò Ernie, “vestiti. E se vuoi
restare qui, per me va bene.” Ernie andò nello sgabuzzino delle
scope e mi lanciò un fagotto. “Questo è l’armadio degli oggetti
smarriti,” disse “Sono le cose che la gente dimentica sulle
barche. Forse puoi trovarci qualcosa che ti tenga caldo.” La felpa
mi andava grande, ma mi ci sentivo bene. E avevo trovato un nuovo
amico. Ma più importante ancora: stavo sopravvivendo a Ta-Na-E-Ka.
Mio
nonno aveva detto che questa esperienza sarebbe stata piena di
avventure, e io stavo avendo la mia parte. E il nonno non aveva mai
detto che non potevo accettare ospitalità. Rimasi nel locale di
Ernie per tutto il periodo. La mattina andavo nei boschi e osservavo
gli animali e raccoglievo i fiori per i tavoli nel ristorante di
Ernie. Non mi eri mai sentita meglio. Mi alzavo abbastanza presto per
vedere il sole sorgere sul Missuori e andavo a letto dopo che era
tramontato. Mangiavo tutto quello che volevo – insistendo affinché
Ernie prendesse tutto il denaro per il cibo. “Lo terrò da parte
per te, Mary,” promise Ernie, “ in caso tu abbia un disperato
bisogno di cinque dollari.” Mi dispiacque quando i cinque giorni
trascorsero. Ogni minuto con Ernie era stato un divertimento. Mi
insegnò come fare una frittata western e come preparare il chili
alla maniera di Ernie (ancora oggi uno dei miei piatti preferiti).
E
io raccontai ad Ernie tutto sulle leggende dei Kaw. Non mi ero mai
resa conto di sapere così tanto riguardo alla mia gente. Ma
Ta-Na-E-Ka era finito e mentre mi avvicinavo a casa mia, erano quasi
le nove e mezza di sera, incominciai di nuovo ad innervosirmi. E se
il nonno mi avesse chiesto delle bacche e delle cavallette? Inoltre i
miei piedi avevano appena qualche graffio. Non avevo perso un chilo e
i capelli erano ben pettinati. “Saranno così felici di vedermi,”
mi dissi speranzosa, “che non mi faranno troppe domande.”
Aprii
la porta. Mio nonno era nella stanza di fronte. Indossava la camicia
cerimoniale di renna ricamata con le perline che era appartenuta a
suo nonno. “N'g'da'ma,” disse. “Bentornata.” Diedi un caldo
abbraccio ai miei genitori, lasciandoli andare solamente quando vidi
mio cugino disteso sul divano. Aveva gli occhi gonfi e rossi. Aveva
perso peso. I piedi erano un’inguardabile massa sanguinolenta piena
di vesciche, e gemeva: “Ce l’ho fatta, ce l’ho fatta. Sono un
guerriero. Un guerriero.” Mio nonno mi guardò con curiosità. Ero
pulita, ovviamente ben nutrita e scoppiavo di salute. I miei parenti
capirono al volo. Mio zio e mia zia mi guardarono con ostilità. Alla
fine il nonno mi chiese, “Cosa hai mangiato per stare così bene?”
Tirai il fiato e cacciai fuori la verità: “Hamburgers e frullati.”
“ Hamburgers!” ruggì mio nonno. “Frullati!” gemette Roger.
“Non ci hai detto che dovevamo mangiare cavallette,” dissi con
aria mortificata. “Raccontaci il tuo Ta-Na-E-Ka,” mi ordinò il
nonno.
Raccontai tutto, dai cinque dollari presi in prestito, alla
gentilezza di Ernie, all’osservazione dei castori. “Non è per
questo che vi ho preparato,” disse amaramente il nonno. Mi alzai in
piedi.
“Nonno,
ho imparato che Ta-Na-E-Ka è importante. Non la pensavo così nel
periodo di preparazione. Ero spaventata a morte. L’ho affrontato a
modo mio. E ho imparato che non c’era motivo di aver paura. Nel
1947, non c’è alcun bisogno di mangiare cavallette quando si
possono mangiare hamburger.” Dentro di me ero spaventata della mia
stessa audacia. Ma mi piaceva. “Nonno, scommetto che tu non hai mai
mangiato una di quelle schifose bacche.” Il nonno rise! Mio padre e
mia madre, mio zio e mia zia erano completamente sbalorditi. Il nonno
non aveva mai riso. Mai. “Quelle bacche… sono terribili,”
riconobbe il nonno. “Non le ho mai mangiate. Trovai un cervo morto
il primo giorno di Ta-Na-E-Ka – ucciso da un soldato,
probabilmente – e mi tenne la pancia piena per tutto il periodo
della prova!” disse. Guardai Roger.
“Sei
proprio furba, Mary,” grugnì Roger. “Io non ci avrei mai
pensato.” “I contabili devono solo essere brevi in matematica,”
gli dissi per confortarlo. “Sono tremendo in aritmetica.” Roger
tentò di sorridere, ma non poté. Il nonno mi chiamò vicino a lui.
“Avresti dovuto comportarti come tuo cugino. Ma penso che tu sia
più attenta di noi a quello che sta succedendo al nostro popolo
oggi. Penso che tu avresti superato la prova in qualunque
circostanza, in ogni epoca. In qualche modo, tu sai come esistere in
un mondo che non è stato fatto per gli indiani. Non penso che avrai
alcun problema a sopravvivere.” Il nonno non aveva completamente
ragione. Ma ve ne parlerò un’altra volta.
FINE
1
I Kansa, conosciuti anche come Kaw, sono i nativi della tribù
che un tempo viveva nel midwest centrale statunitense, precisamente
nello stato che oggi prende il loro nome, il Kansas. Il loro nome
significa “gente del vento del sud” oppure “gente dell’acqua”.
La capitale del Kansas è Topeka che in lingua kansa significa “un
buon posto per far crescere le patate.”
2
Gruppo etnolinguistico dell'America Settentrionale, un tempo
stanziato in una vasta regione fra il Mississippi settentrionale e i
Grandi Laghi (Canada) e successivamente nella prateria settentrionale
fino all'arrivo dei coloni bianchi. Il nome Sioux fu usato dai coloni
francesi per identificare il vasto insieme di tribù Dakota
(distinti in “Lakota” e “Nakota”, che significa “alleanza”)
accomunate da una medesima lingua e da identiche tradizioni
culturali.
3
Fort
Sheridan, costruito
nel 1887, è
una
struttura militare lungo il lago
Michigan in località
Highwood, Illinois.
Durante
la seconda guerra mondiale servì come centro di reclutamento e
addestramento delle
truppe in partenza per l’Europa.
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